
A Filippo Serra non piace farsi mangiare “la pastasciutta in testa”, forse perché è abituato a guardare il mondo dalla groppa di un cavallo. Lo dice con un sorriso mosso da una serenità tutta sua. Ma si capisce che non scherza. Come vigili urbani piombati nella piazza scossa dal "logorio della vita moderna”, lui e altri tre colleghi guardia spiaggia a San Teodoro, hanno presidiato la Cinta per tutto il mese di agosto. Dalle dieci del mattino alle sette di sera, su e giù lungo i quattro chilometri di sabbia. Assoldati, per così dire, dal Comune, per regolare traffico e costumi, intesi come comportamenti, tra le dune e la battigia. E con la stessa serenità racconta che ha preso questo lavoro mentre era in ferie. E a settembre “poi si vedrà”.
Agosto ancora si fa sentire, nel mezzo del suo manifestarsi. Significa caldo, e un affollamento che fa della Cinta uno dei luoghi tenuti più controllati. Antenne per contare i cellulari che si agganciano qui e quindi le presenze. E il servizio di guardia spiaggia e steward: “Una cosa per la comunità - racconta - oltre a essere un lavoro, se non lo fai con passione tendi a fregartene di quello che ti succede intorno. E qui te ne capitano un po' di tutti i colori”.
Tutti i colori della Cinta
Il primo esempio che fa è quello degli ambulanti che “non stanno alle regole e a volte è frustrante”. Dice che uno si è improvvisato bagnino senza concessione: “Aveva ombrelloni e sdraio, di fronte alla battigia, e ombrelloni pronti da affittare. Il bello è che gli altri ambulanti lo detestano, vengono a dirci che è una testa calda. Si dissociano”.
Dice delle ragazze che prendono e se ne vanno, lasciandosi dietro il personale cumulo di immondizia, degli “indiani” che montano tepee sulle dune, fregandosene della staccionata che separa la spiaggia dal corridoio naturale e dallo stagno "erano tantissimi i primi giorni. Ora sono pochissimi, c'è stato il passaparola". E chi si porta via souvenir illegali: “Uno è uscito lamentandosi perché la passerella non arrivava fino alla battigia - ricorda Serra - una filippica assurda. Poi si gira e vedo che il retino del suo zaino è pieno di conchiglie. Io dico: ‘Ma mi stai facendo 'sto casino per la passerella e poi fai questo?’”.
In questa sua serenità del raccontarsi emerge la dedizione e la voglia di conciliazione: “È brutto scontrarsi ma devi avere il muso duro” e ammette con un po’ di imbarazzo che una volta ha fatto piangere un bambino: “Stava uscendo col secchiello pieno di conchiglie. Erano inglesi, io non parlo bene l'inglese. Ho fatto capire alla signora che all'aeroporto se ti prendono sono guai. Il padre ha preso in braccio il bambino che piangeva, insieme li hanno ributtati in acqua. Poi sono tornati e il bambino non piangeva più. Perché il papà glielo aveva spiegato”.
Il bomber frustrato
Sostiene che “devi entrare nella testa di chi sta in spiaggia. Se li tratti tutti allo stesso modo litighi con cento persone al giorno. Devi cercare di capirli altrimenti è impossibile. Diventi scemo”. Come con i ragazzi. “Il problema significa tanta, tanta, tanta gente. Secondo me i giovani non sono così tanto diversi da quelli di dieci anni fa, erano scalmanati anche prima. Ma ora sono talmente tanti...”.
Racconta di un’euforia collettiva che esplode e non viene incanalata. Come i palloni colpiti con la stessa energia che ci spende Cristiano Ronaldo: “Poi se li rimproveri ti chiedono scusa. A cosa servono le scuse? Devi attaccare il cervello. Qualcuno mi ha risposto ‘ma non capisci che eravamo un anno e mezzo chiusi?’. Gli ho risposto che anche quello che ha preso la pallonata è stato un anno e mezzo chiuso ma è lì sdraiato che prende il sole. Sei tu il problema, non questo anno e mezzo”.
Eppure questo non è il suo lavoro: “È una cosa che a me sta a cuore, il voler bene alla Cinta. Sensibilizzare la gente”. Filippo Serra, 42 anni, non è di San Teodoro, ma dice che qui tutti lo hanno fatto sentire subito a casa, grazie anche alla famiglia della sua compagna, Pamela Celani. Racconta di essere arrivato nel 2015, per lavorare al Maneggio La Cinta come guida equestre, accompagnava i turisti nella passeggiata che costeggia lo stagno e la spiaggia, giù fino al guado. Un lavoro stagionale. E poi è tornato a fare l'elettricista.
Febbre da cavallo
Lui in sella ci è praticamente nato, a Sanluri, nel Medio Campidano. “Mio padre Raimondo lavorava a Torino, montava insegne al neon. È tornato in Sardegna per concepirmi e comprare il cavallo. Gestiva un maneggio a Sanluri, il sabato e la domenica si stava tutti assieme con gli amici e i loro cavalli”.
La chiama “malattia”, la sua, segnato dalla nascita. Lui e Pamela ne hanno due, Sifuledda, sella Italiana, e Tandeeke, angloarabo sardo. Li tengono in un terreno non lontano da casa, con il loro box. Da lì, la Patimedda, “il mare non si vede, ma l'azzurro si intuisce”, ma preferiscono portarli sui sentieri delle colline a passeggiare. E quando sono via per le ferie, li lascia curare al suocero, Piero Celani, però “dopo quattro o cinque giorni comincio lo stesso a stare in pensiero”.
Piccoletti e resistenti
Dice che lui li capisce, i suoi cavalli. Proprio come loro capiscono chi sta in sella (“ci sono cavalli bravissimi che se gli rompi la scatole o fai lo sbruffone, ti mettono a terra”). Pensando al suo racconto, sembra che voglia parlare anche un po’ di se stesso. Mentre il silenzio, in sella a Sifuledda o in montagna col suo cane è un po’ il contrario di ciò che ha dovuto governare in spiaggia questa estate.
A proposito di silenzio, racconta che ha anche la passione degli acquari, cresciuta durante il lockdown. In casa ne ha quattro, con biotopi tropicali e della Papua Nuova Guinea in cui i pesci si riproducono come se fossero acque d’atollo. E ha giocato a calcio e calcio a cinque, fino alla serie B. Ma se deve parlare di qualcosa, racconta dei suoi animali. “Ho corso anche qualche palio, ogni domenica d’estate ce n’è uno, come quello dell’Assunta a Guasila. C’era chi andava al mare, noi a Ferragosto andavamo lì - ricorda - e ho fatto endurance a livello agonistico, gare di resistenza che possono arrivare anche a 130 chilometri. Nei paesi arabi è sport nazionale, infatti si usano principalmente cavalli arabi, che sono più piccoletti ma molto resistenti. Un po' come i sardi”.